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16/07/2017 - 08:26:39

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CONSIDERAZIONI DOPO LE REAZIONI ISTERICHE A UNA RISSA TRA RAGAZZI NATIVI E IMMIGRATI

Accoglienza e integrazione: una risorsa. Nei prossimi anni questa sarą forse la questione pił importante da affrontare anche a Piazza


Considerazioni dopo le reazioni isteriche a una rissa tra ragazzi nativi e immigrati Non so se l’espressione “Italiani brava gente” si sia diffusa dopo il film della metà degli anni Sessanta che raccontava le vicende di un gruppo di soldati italiani durante la campagna di Russia del 1943, o se invece fosse già utilizzata negli anni del Dopoguerra.

In ogni caso essa sta a indicare una presunta estraneità degli italiani a crimini ed efferatezze anche in occasione di conflitti assai cruenti come fu la II Guerra mondiale o nei paesi occupati dall’esercito italiano per farne colonie dell’impero, dalla Libia, all’Etiopia, dall’Eritrea alla Somalia. E, naturalmente, ha un grande successo tra noi italiani che, come sempre, tendiamo ad autoassolverci da ogni responsabilità: partecipiamo alle guerre quando non ne possiamo fare a meno (ma le guerre coloniali le abbiamo fatte noi), ma ci comportiamo da cavalieri; uccidiamo, ma per non essere uccisi e, in ogni caso, senza cattiveria.
Gli storici hanno dimostrato che i soldati italiani, come i soldati di tutti gli eserciti in guerra si sono macchiati di genocidi, di stupri collettivi, di uccisione di civili con armi non convenzionali, di torture. E così via. È stato così nella seconda guerra mondiale (come ha stabilito una commissione italo-tedesca alcuni anni fa) ed è stato così nelle colonie (come ha dimostrato lo storico Angelo Del Boca). Sicuramente lo stesso è accaduto in tutti i conflitti ai quali gli italiani hanno partecipato.

Queste riflessioni mi sono più volte tornate in mente in questi giorni in cui nei social – su Facebook soprattutto – si assiste a un crescente, inarrestabile, preoccupante florilegio di espressioni violente, violentissime nei confronti degli immigrati che sono, più o meno temporaneamente ospitati in varie città italiane. E così avviene anche tra le migliaia di utenti Fb della ridente cittàdina) al centro della Sicilia i quali, naturalmente, come gli italiani di qualunque altra città, premettono sempre di «non essere razzista».


Dopo la rissa scoppiata qualche giorno fa in piazza Boris Giuliano, cuore della movida locale ed emblema della mancanza totale di volontà e capacità di organizzazione da parte dell’amministrazione comunale, i piazzesi hanno dato il meglio di sé. La rissa, lo ricordo a chi dovesse avere perso la notizia di cronaca, è avvenuta tra tre immigrati dell’Africa orientale ubriachi e altrettanti ragazzi autoctoni. Da qui si sono scatenate le peggiori pulsioni che hanno portato anche a scrivere frasi del tipo: «dovrebbero bruciare vivi, tra mille tormenti». E anche qualche associazione di categoria ha subito messo nero su bianco che bisogna tutelare le attività commerciali da eventi come quello accaduto.


Ma non c’è solo la reazione isterica di coloro che, di fronte a una brutta, ma banale rissa tra giovani (ubriachi o no), mette a nudo la violenza efferata di espressioni come quelle, ma quella di tanti bravissimi cittadini che cominciano a esprimere insofferenza, sospetto e i primi segni di intolleranza verso i giovani di colore che girano per le strade della città. Tutti costoro, tutti, affermano, ovviamente, di non essere razzisti.
Una polveriera insomma.
Il fenomeno, finora, è stato assolutamente sottovalutato in Italia e a Piazza, ma se non si cominciasse a tentare di governarlo, allora potrebbe portare con sé anche un rivolgimento totale della cultura e dell’agenda politica italiana e locale. E non in meglio.
La colpa è solo della cattiveria e della violenza nascoste in ciascuno di noi? No. Anche in questo caso c’è una profonda colpa delle istituzioni.
A Piazza (22 mila abitanti comprese le galline) sono attualmente ospitate alcune centinaia di richiedenti asilo che, però, si trovano in condizioni diverse a seconda del sistema di accoglienza nel quale sono inquadrati. Una novantina – quelli ospitati nell’ex Ostello del Borgo e altri che abitano in case affittate nel centro storico – sono seguiti nel quadro dello Sprar (Sistema Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), un sistema che non si cura dell’assistenza immediata a coloro che sbarcano sulle coste italiane, ma a coloro che hanno avviato un percorso di riconoscimento dello status di rifugiato. Queste persone sono seguite da mediatori culturali, ricevono corsi di lingua e vengono inseriti in programmi di inserimento sociale e lavorativo che in alcuni casi hanno portato anche a una, seppur stentata, indipendenza economica al momento in cui i rifugiati sono dovuti uscire dalla comunità. Il progetto di accoglienza integrata è finanziato dal Ministero che lo gestisce e controlla attraverso il Comune che fa da cerniera con l’organizzazione del terzo settore che ha presentato il progetto.


Altri, ospitati in strutture private di tipo residenziale o ricettivo, sono seguiti nell’ambito del CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) e vengono gestiti direttamente dalla Prefetture per fare fronte alle emergenze (ormai quotidiane) e dovrebbero risiedere per un tempo breve in attesa di essere trasferiti in strutture di seconda accoglienza.
Poi ci sono i minori non accompagnati (che in quanto minori devono essere necessariamente accolti) che fino a pochi mesi va venivano lasciati senza specifica assistenza e spesso si davano alla fuga per raggiungere i parenti in altri paesi e ora sono tutelati da una legge che prevede centri di prima accoglienza in cui i ragazzi possono restare per poche settimane e poi strutture nelle quali verranno seguiti anche con la nomina di tutori. A Piazza si trovano in strutture ricettive che si sono riconvertite. 
Sia i CAS che l’accoglienza per minori funzionano, data l’emergenza, non sulla base di progetti preventivamente approvati, ma a rendiconto mensile che non transita dal Comune.
Dato il continuo arrivo di immigrati sulle coste siciliane, non si riesce ad avere il dato attuale delle presenze, ma è certo che è ben superiore al limite di 3 ogni mille abitanti che, a Piazza, ne prevederebbe solo 66. Ma il problema non è tanto nei numeri (ci sono oltre 500 rumeni a Piazza e nessuno se ne accorge dal momento che sono bianchi e relativamente integrati), ma nel fatto che molti di essi non vengono impegnati in attività formative, informative, di integrazione, sportive, culturali. E vengono lasciati nella noia, spinti indirettamente a chiedere l’elemosina, ad accettare lavori al nero nelle campagne a paghe da schiavismo legalizzato, oppure a ciondolare con una bottiglia in mano come, purtroppo, molti loro coetanei nativi.
Nei prossimi anni questa sarà forse la questione più importante da affrontare anche a Piazza, come in Italia e in Europa, perché non sarà facile fermare questa migrazione epocale e, in ogni caso, ci vorranno anni. E, per questo, sarà al centro del dibattito, delle campagne elettorali, delle decisioni dei governi ai vari livelli.
Per questo, indipendentemente dalle responsabilità che la legge attribuisce al Comune, è necessario che ci si confronti su questo tema. Come favorire il riconoscimento reciproco tra nativi e immigrati anche solo temporaneamente presenti nel territorio. Come evitare il rigetto da parte di quella parte della popolazione che dipende almeno in parte dal welfare locale e sente gli immigrati come concorrenti o soggetto che sottraggono risorse all’assistenza ai bisognosi nativi? Come isolare i razzisti e i violenti e fare crescere uno spirito di vera accoglienza? 
Le strade da percorrere sono tante e tutte difficili, ma tutte prevedono una condivisione di tutti gli ottomila comuni italiani e non solo di un quarto, in modo che possa davvero essere avvicinata la soglia del 3 per mille e una capacità di governance non solo internazionale nazionale, ma anche locale.
Una cosa, quest’ultima, che nell’attuale classe dirigente cittadina non solo manca anche per l’ordinaria amministrazione, ma alla quale questa classe dirigente è talmente estranea, che se anche fosse possibile trapiantarla, produrrebbe un immediato rigetto.
Ragioniamoci, dunque, ora e non in campagna elettorale perché Piazza, città nata da una pulizia etnica, possa diventare un modello di vera accoglienza integrata. Non solo nell’interesse degli immigrati, ma in quello nostro.



 

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