Il sabato del Villaggio
Carmelo Nigrelli
Tra pochi giorni si celebrerà il referendum costituzionale che chiama i cittadini a esprimersi sulla modifica di 47 articoli della Costituzione approvata dal Parlamento italiano. La stessa identica cosa era accaduta nel 2001 e i cittadini bocciarono la Riforma allora proposta e approvata da un parlamento con ampia maggioranza berlusconiana. Non accadde nulla dopo. Non ci furono colpi di stato, non ci fu una crisi delle istituzioni nazionali. Il giorno dopo la dialettica politica rientrò nei binari ordinari.
Questa volta sembra che il Referendum sia un giudizio universale: i sostenitori del Si affermano che, se vincessero i No, l’Italia tornerebbe indietro di 30 anni. Gli altri che se vincessero i Si, il Paese subirebbe una involuzione autoritaria. Gli uni e gli altri, in realtà, in questa campagna referendaria che si è svolta quasi tutta nei mass media televisivi e internettiani, ma non ha riempito piazze e scaldato cuori, non hanno messo al centro della discussione il merito della riforma, ma temi solo politici, anzi di bassa politica, se non, in ultima analisi, il proprio destino personale.
Il peccato originale è stato di Matteo Renzi che, o perché circuìto dal refrain berlusconiano e grillino di non avere la legittimazione popolare a governare, o per una sorta di istrionismo che lo porta ad alzare sempre più teatralmente l’asticella del consenso che gli si deve, mesi fa affermò che, con una vittoria dei No, si sarebbe ritirato dalla scena. Ai suoi avversari – interni ed esterni – non parve vero e così la campagna è stata tutto un urlare pro o contro il governo e Renzi in prima persona. Molti non sanno neanche per cosa si vota in realtà, né interessa loro: alcuni vogliono disfarsi dell’ingombrante presidente del consiglio, altri lo sostengono acriticamente come un messia.
Quei pochi come me che non cercano né messia da osannare, né messia da condannare, né accettano – visto che siamo in tema – posizioni pilatesche, hanno trovato poca compagnia. Così, per essere chiaro, voterò Si senza entusiasmo, convinto che le pur imperfette riforme proposte siano utili al Paese.
Tuttavia non sfugge che il pesantissimo significato politico che è stato inopinatamente attribuito alla consultazione non potrà non rimanere senza conseguenze.
L’ultimo sondaggio reso noto prima del silenzio imposto per legge nei 15 giorni che precedono la votazione, ha dato il No in vantaggio di ben 7 punti e lo stesso Renzi, nei giorni successivi, ha confermato indirettamente le previsioni negative anche se i più recenti dati informali dicono che la forbice si è ridotta a -5.5%. Innalzando ancora una volta l’asticella, il Presidente del Consiglio ha affermato negli ultimi giorni che, se vincesse il no, porterebbe il Pd sull’Aventino e toccherebbe a «Grillo, Salvini, D’Alema e Berlusconi» farsi carico della governabilità del Paese compresa, penso, la nuova legge elettorale. (Grillo, dal canto suo, ha usato toni ed epiteti sinceramente inaccettabili anche in un confronto molto acceso).
Ancora una volta si tratta di una affermazione teatrale, al limite dell’istrionismo, perché è del tutto evidente che, con la vittoria del No, Renzi dovrebbe dimettersi (forse anche da segretario del Pd, anticipando la fase congressuale), ma al Pd, che ha i gruppi parlamentari più numerosi, toccherebbe comunque il compito di formare un nuovo governo, secondo me con Delrio o Franceschini (meglio che con Padoan) alla guida.
Tuttavia sono convinto che la probabile vittoria del No sarebbe un guaio per l’Italia, per la sua credibilità internazionale (ricordo che siamo considerati da molti amici stranieri, irriformabili e inaffidabili) e per la stabilità interna, non intesa come stabilità dell’attuale governo, ma come possibilità di trovare nei prossimi anni un governo capace di durare una legislatura senza scossoni.
Continuando nella fantasiosa anticipazione di scenari possibili dopo un referendum che, comunque vada, sarà un terremoto, in Sicilia la situazione sarebbe ancora più imbarazzante. Qui, infatti, nella regione speciale per antonomasia, secondo i sondaggi, il No avrebbe la più alta percentuale tra le regioni (si parla del 60%) con un contributo dei simpatizzanti del M5S probabilmente superiore a quello fornito altrove. Appena qualche settimana fa il proconsole di Renzi in Sicilia, Davide Faraone, aveva annunciato che dalla Sicilia sarebbe arrivata la spinta decisiva per la vittoria del Si, grazie alla prevalenza dei voti positivi nella nostra regione. Tale sicurezza nasceva dalle speranze di capitalizzare il lungo lavoro di annessione di vasti pezzi di ceto politico cuffariano e lombardiano, da parte di Faraone, al quale si deve aggiungere il peso di quell’ampio numero di parlamentari regionali che fanno riferimento a Totò Cardinale, ala, per il momento esterna, del Pd di Faraone. Se il sottosegretario avrà ragione, allora è probabile che i sondaggi stiano sbagliando come è accaduto negli USA e lui diventerà il nuovo uomo forte dell’area Renzi nazionale. (Cosa diversa sarà, invece, conquistare la regione dove i grillini, nonostante quanto sta emergendo con la questione delle firme false a Palermo, tra dilettantismo e disonestà, non credo avranno rivali alle prossime regionali).
Se invece il dato sarà quello dei sondaggi (60% di No), allora il sottosegretario dovrà spiegare come mai, dopo avere messo dentro tutto il residuo secco della vecchia politica, non sia riuscito ad ampliare la base di consensi attorno alla posizione del Pd. Questo potrebbe significare che, nella caduta di Renzi, i ruzzoloni più definitivi potrebbe prenderli proprio il sottosegretario palermitano. Peggio ancora se a una vittoria nazionale del Si dovesse corrispondere un segno contrario in Sicilia.
E a Enna? Se vinceranno i Si, sarà Mirello Crisafulli, forte del nuovo accordo politico proprio con Faraone, a mettere il cappello sul risultato; se vinceranno i No, il senatore potrà sempre dire di avere impedito la caporetto del Si. Se vinceranno i No, credo che ne beneficieranno soprattutto i cinquestelle che, pure privi di leader locali carismatici, lucreranno ulteriormente in vista della probabile vittoria nelle imminenti regionali.
A tal proposito giova ricordare che alle prossime regionali i parlamentari della ex provincia di Enna saranno solo due e non più tre e, dunque, la battaglia si fa più dura.
Nel 2012 il Pd fu il primo partito con 10900 voti (di cui 2 mila senza preferenze) seguito dal M5S con 10 mila voti (di cui 6 mila senza preferenze) e da Grande Sud di Miccichè con 8700 voti (di cui 300 senza preferenze). Le tre liste elessero Alloro, Venturino e Lantieri.
Altre liste molto votate furono: Pdl (oltre 8 mila) in appoggio a Musumeci e MPA (6200) a sostegno di Micciché, lista Crocetta (7700) e UDC (4200) apparentate con il Pd.
Oggi il quadro è completamente cambiato: alcune forze politiche presenti 5 anni fa si sono dissolte e ne sono nate altre; l’ondata populista si è accentuata; il Pd è diviso per bande guerreggianti tra loro.
Qualunque sarà il numero dei candidati alla presidenza della Regione, è plausibile che le liste, per garantirsi un parlamentare, dovranno prendere almeno 10 mila voti con due soli candidati e, comunque, più della metà dei grillini che, per me, possono volare oltre i 20 mila voti.
Non mi pare che in giro ci siano molte personalità in grado di raccogliere un così alto numero di preferenze, mentre solo il M5S, al momento, sembra intercettare i voti – senza preferenze – cosiddetti d’opinione. Ciò significa che non è improbabile che M5S riesca ad eleggere entrambi i consiglieri regionali ennesi nella prossima tornata, soprattutto se vinceranno i No. In caso contrario l’unica lista che potrebbe superare i 10 mila voti potrebbe essere il Pd, ma avrebbe bisogno di candidati capaci di attirare anche i voti di opinione.
Carmelo Nigrelli
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